Il principio dell’operare riabilitativo

La riabilitazione ricapitola l’essenza della nostra azione.

Ciò di cui siamo chiamati a prenderci cura non riguarda solo la malattia dei nostri pazienti, ma implica l’incontro con tutta la persona, mette in moto un processo che sta al confine della cura e lo oltrepassa.

Nel nostro lavoro oltrepassiamo lo spazio chiuso e sterilizzato che prevede le due sole posizioni del curante e del curato e ci giochiamo nel campo aperto in continuità e contiguità con gli spazi e le presenze della vita quotidiana, con la complessità comportata dalla contaminazione tra i differenti mondi a cui il soggetto ugualmente appartiene, ciascuno portatore di proprie e specifiche esigenze che, nel processo riabilitativo, si incontrano e si intersecano.

Perciò il concetto di riabilitazione è un concetto interessante, in primo luogo perché descrive una realtà che non è circoscritta solo alla medicina, ma riguarda molteplici pratiche dell’agire umano.

In medicina, la riabilitazione consiste in una serie di processi complessi, il cui denominatore comune risiede nello scopo di condurre dei soggetti – per quanto possibile – all’acquisizione o alla ri-acquisizione di competenze e abilità che gli altri soggetti generalmente posseggono, mentre essi non sono riusciti ad acquisirle spontaneamente o le hanno perdute.

Se inquadriamo la riabilitazione in questa prospettiva più larga, incominciamo ad apprezzare il fatto che essa può comprendere pratiche con un coefficiente tecnico molto alto, ma anche pratiche che appartengono alla vita comune, a condizione che non si esauriscano nello spontaneismo anche buono dell’agire con il cuore, ma, oltrepassando questa intenzione, sappiano fermarsi a cogliere ciò che quel comportamento ha messo in moto, di buono o meno buono, e a riflettervi: riflessione e valutazione.

Troviamo pratiche che possono svolgersi con modalità molto standardizzate, ma anche con modalità assolutamente informali e imprevedibili; che possono richiedere l’intervento di competenze molto specialistiche e settoriali, ma anche competenze molto più universali non meno sofisticate delle prime, come sono le competenze relazionali.

Pratiche che possono richiedere al soggetto riabilitando una piena consapevolezza ed adesione all’azione riabilitativa, ma che possono anche avvenire lasciandolo in una posizione più passiva o addirittura – entro certi limiti – contraria.

L’osservazione di questa possibilità ci ha permesso di scoprire che, nel caso della riabilitazione psicosociale, la prospettiva medica può essere persino ribaltata: il momento riabilitativo non necessariamente inizia alla conclusione del processo di cura, ma può anticiparlo diventando la necessaria premessa che rende possibile l’inizio della cura. Quando ci troviamo a che fare con una persona di cui ci viene chiesto di prenderci cura, ma che non si considera in alcun modo bisognosa del nostro aiuto o intervento, o lo rifiuta perché, in fondo, teme che l’entrare in contatto con la propria debolezza e vulnerabilità la faccia soccombere, noi, per incominciare a muoverci, dobbiamo avere una visione appropriata della situazione in cui ci troviamo; si prospetta un intervento che non si conclude in un atto unico, come potrebbe essere l’intervento salvavita dopo il quale la relazione si conclude e ognuno va per la sua strada. Ci è richiesto di iniziare un rapporto, ma non di cura, perché non c’è domanda e non c’è consenso. Che senso possiamo attribuire, allora, al rapporto in cui stiamo per ingaggiarci? Come lo possiamo chiamare, se non “riabilitazione della domanda di cura” che sta alla base dell’intero processo?

 

Cosa è riabilitazione e chi è il riabilitatore

Chiamiamo “riabilitazione” ogni azione o percorso formale o informale, costruito allo scopo di sostenere la capacità del soggetto di affrontare la realtà personale, relazionale e sociale e di corrispondervi con le giuste azioni richieste dalla situazione o dallo scopo, grazie al ripristino di facoltà precedentemente possedute, poi perdute o danneggiate, ma anche sviluppando competenze nuove.

Riabilitazione, pertanto, non consiste prioritariamente nel fatto che il paziente “faccia delle cose”; consiste piuttosto nell’immetterlo, nell’accoglierlo in un contesto materiale e relazionale adeguato, che non vuole dire “perfetto”, in quanto la perfezione soddisfa il nostro narcisismo, ma è destinata invariabilmente a generare invidia e a bloccare il processo. La creazione di un contesto materiale e relazionale adeguato comporta, in primo luogo, lo stabilirsi di una relazione calma, rassicurante, non invadente, in grado di stabilire o ristabilire un luogo in cui si possono sperimentare condizioni di vita non degradate e violente, umane.

L’operatore adeguato a favorire questo processo è prodotto da questa impostazione; raggiunge la competenza necessaria a prescindere dal percorso accademico che ha seguito e, potremmo dire, anche a dispetto di questo percorso.

Gli operatori della riabilitazione provengono da un iter sia di tipo sanitario sia di tipo pedagogico, ma gli uni e gli altri, per diventare effettivamente dei riabilitatori, devono modificare qualcosa di non secondario nella propria impostazione:

  • i sanitari debbono abbandonare l’ottica della malattia, che li porta a presumere che i pazienti siano naturalmente portatori del desiderio di ristabilire l’equilibrio infranto dalla malattia. La condizione con cui hanno a che fare molti nostri pazienti, infatti, soprattutto quelli che presentano un disturbo della personalità, ha a che fare più con le vicissitudini dell’esperienza e della formazione della libertà che non con l’esordio di una malattia. Non può essere data per scontata, pertanto, la presenza del desiderio di guarire;
  • coloro che hanno seguito un iter pedagogico devono anch’essi abbandonare qualcosa che hanno appreso nel corso della loro formazione, ossia l’idea che si tratti di colmare una lacuna educativa, in primo luogo perché per molti questa educazione c’è stata, ma non ha attecchito; in secondo luogo perché – per tutti – il tempo dell’educazione è ormai trascorso è si è orami chiusa la “finestra temporale” del normale apprendimento.

Cosa occorre saper vedere, per poter introdurre il soggetto al suo personale percorso riabilitativo?

Occorre che l’operatore accetti il fatto che il soggetto non vede le cose dalla medesima prospettiva: l’operatore si concentra sulle competenze il cui funzionamento è insufficiente o danneggiato e si propone di ripararle con la sua azione; il soggetto interessato – al contrario – spesso scotomizza la funzione danneggiata o la trasforma nel suo contrario, idealizzandola.

Per farla breve: il soggetto non si coinvolge nel lavoro riabilitativo se l’operatore lo spinge a focalizzare la sua attenzione su ciò che non funziona, perché non trova alcun appeal nello scopo puramente riparativo.

Affinché si coinvolga occorre che venga incoraggiato il suo tentativo di incrementare qualcosa che già fa parte di sé e che è buono, utilizzando una risorsa già presente almeno in nuce.

In altre parole: la disponibilità ad ingaggiarsi nel lavoro riabilitativo sarà maggiore quanto più il terreno su cui ci si muoverà sarà familiare al soggetto, così che egli lo possa considerare più come la coltivazione del proprio orto che non come l’esplorazione di una terra incognita.

Differentemente da ciò che accade nel processo riabilitativo delle altre funzioni che riguardano il corpo, nella riabilitazione psicosociale è molto difficile distinguere tra facoltà precedentemente possedute e quindi perdute e facoltà mai sviluppate, e quindi da “costruire ex novo”. Prendiamo la funzione affettiva: la malattia spoglia progressivamente la capacità di reagire empaticamente e sintonicamente con gli altri, così che la persona diviene anaffettiva, perde la sua capacità di “sentire” e di partecipare affettivamente. Questa perdita, però, non è vissuta nel medesimo modo in cui verrebbe vissuta la perduta funzionalità di una gamba o di una mano, perché la malattia mentale (la psicosi) non cancella solo la funzione, ma anche il ricordo stesso della coloritura affettiva degli avvenimenti psichici, delle sfumature che trapassano da una tonalità a un’altra. Il mondo schizofrenico o è un mondo rigorosamente in bianco e nero o, all’opposto, un mondo che esiste solo in quanto caoticamente colorato, e nell’un caso quanto nell’altro è sbarrato l’accesso alla percezione opposta.

Il processo riabilitativo, pertanto, in questo caso mira alla ricostituzione di una possibilità di cogliere una salienza emotiva e – se ciò accade – non si pone come il recupero di una funzione ritrovata, ma sempre come un’esperienza nuova.