
24 Gen Pandemia: quali effetti sui nostri pazienti?
Ne parliamo con Cinzia Mattavelli, psichiatra, vice direttrice clinica.
L’onda lunga delle restrizioni, dal lockdown totale alle “zone”, l’esodo forzato dalla routine consolidata, la riduzione dei contatti con l’esterno, come hanno impattato sui pazienti delle nostre comunità. A quasi due anni dall’inizio dell'”Era Covid” proviamo tracciarne un quadro per quanto possibile generale.
GLI EFFETTI DELLA PANDEMIA SUI NOSTRI PAZIENTI
Intervista alla dott.ssa Cinzia Mattavelli, psichiatra e vice direttrice clinica
A: Da quanto tempo cura i pazienti della Fondazione?
M: Sono in Fondazione Adele Bonolis – AS.FRA. dal settembre del 2009. Inizialmente mi sono occupata dei pazienti di una delle due Comunità Protette ad Alta Assistenza (CPA) e di una delle due Comunità Riabilitative ad Alta Assistenza (CRA). Da alcuni anni sono una degli psichiatri referenti delle due CRA (“R0” e “R1”).
A: Qualora sia possibile una categorizzazione, che tipologia di malati sono (giovani, severi, tipologia di patologie, doppie diagnosi, uso di sostanze, ecc)?
M: I pazienti residenti nelle CRA sono perlopiù giovani (attualmente hanno un’età che va dai 18 ai 54 anni). Ultimamente abbiamo accolto giovanissimi che, al raggiungimento della maggiore età, sono usciti dal circuito della Neuropsichiatria Infantile e sono stati presi in carico dai Centri Psico Sociali (CPS). Alcuni di essi sono alla prima esperienza comunitaria, altri provengono da Comunità Educative per minori.
La maggior parte dei pazienti delle nostre CRA presenta Disturbi di Personalità (primo fra tutti il disturbo “borderline” o emotivamente instabile e antisociale) ma ve ne sono anche alcuni affetti da psicosi e altri con un funzionamento intellettivo limite. L’utilizzo di sostanze (soprattutto cannabinoidi e alcool) accomuna molti dei nostri giovani pazienti, che all’ingresso si impegnano a non adoperarsi per reperirle, introdurle e farne strumento di socialità disfunzionale (come erano soliti fare prima dell’inserimento in CRA). A volte questa presa di coscienza richiede mesi o addirittura anni.
Occorre precisare che il percorso residenziale per alcuni pazienti è frutto di una abbozzata domanda di cura condivisa con i curanti territoriali, mentre per altri, autori di reato e sottoposti a Misura si sicurezza, la motivazione è eteronoma, ovvero imposta dal Magistrato di Sorveglianza.
A: Nel periodo di pandemia, attraverso le diverse fasi che lo hanno caratterizzato dalla chiusura totale al recupero di una libertà “ristretta” da prescrizioni e norme, quale è stata se vi sia stato, in generale la reazione comune?
M: Al di là dello sbigottimento iniziale per via dello stravolgimento delle nostre esistenze a partire dalla quotidianità, è importante riconoscere che anche noi in Fondazione Adele Bonolis – AS.FRA., nel nostro piccolo, abbiamo avuto la consapevolezza di dovere unire le forze per superare una situazione nuova, terribile e inattesa. Per dirla con le parole del Santo Padre, durante la benedizione “Urbi et orbi” del Venerdì Santo del 2020, avevamo la sensazione di essere “fragili e disorientati, tutti sulla stessa barca, nella tempesta”. Quindi sotto la guida della Direzione che ha valutato, previsto e disposto tutto il necessario perché la vita all’interno delle Comunità procedesse nella “nuova normalità”, nel modo meno traumatico possibile, ci siamo tutti adattati a quello che la circostanza imponeva e tuttora impone. Ognuno secondo le proprie competenze, attitudini e abilità si è adoperato per far sì che i percorsi riabilitativi delle persone a noi affidate proseguissero all’interno degli spazi della Fondazione.
A: Quali aspetti di questo periodo sono stati più difficili da sopportare e di conseguenza da gestire?
M: Direi per la gran parte dei pazienti l’utilizzo corretto delle mascherine chirurgiche negli spazi comuni e il distanziamento. Gli operatori si sono adoperati per sensibilizzare tutti al corretto utilizzo dei presidi di protezione individuale e hanno anche pensato a originali modalità per premiare i virtuosi che seguivano le regole imposte dall’emergenza in atto (ad esempio, chi dimostrava di avere interiorizzato tali norme aveva la precedenza rispetto ad altri nell’essere accompagnato dal parrucchiere o dal barbiere).
A: Avete osservato una recrudescenza di comportamenti e disagi che invece erano in un percorso avviato di riabilitazione?
M: Non è possibile generalizzare, in quanto non siamo di fronte a un processo lineare; ogni percorso riabilitativo è unico e pensato sull’individuo. Quindi non possiamo attribuire con certezza alla pandemia fallimenti, frenate o brusche deviazioni di alcuni percorsi. Però possiamo dire che quello che è stato osservato a livelli nazionale e globale, si è verificato anche nelle nostre realtà: paura, ansia, tensione, senso di impotenza, insofferenza per i cambiamenti che ognuno di noi ha dovuto mettere in atto.
A: Quali aspetti sono stati più difficili per i pazienti (segregazione, quarantene, mancanza di visite, riduzione delle attività riabilitative di gruppo, ecc.)
M: In genere tutte le restrizioni imposte dalla pandemia sono state fonte di tensioni per la maggior parte dei pazienti delle CRA. In primis la sospensione delle uscite autonome, dei permessi al domicilio, delle visite dei familiari. Anche le attività di gruppo condotte all’esterno sono state sospese nei primi mesi di emergenza sanitaria.
Gli inserimenti, già di per sé momenti delicati, sono stati resi ancora più difficoltosi dal periodo di quarantena che era necessario sostenere prima dell’effettuazione dei vaccini. Abbiamo avuto persone che non sono riuscite a portare a termine il periodo di quarantena, altre che hanno chiesto di interrompere l’inserimento dopo poche ore dal termine della stessa.
A: Siete dovuti intervenire anche con un aumento o cambiamento di interventi farmacologici?
M: Anche i questo caso non è possibile rispondere con certezza alla domanda perché molte sono le variabili che intervengono nella prescrizione di una terapia farmacologica.
A: Vi è stato qualche fallimento (pazienti che si sono allontanati senza più ritornare, ecc.)
M: Vi sono stati un paio di pazienti che, durante la prima chiusura totale, hanno deciso di interrompere definitivamente il percorso comunitario per rientrare a casa.
Anche nell’autunno del 2020, con il sopraggiungere di nuove restrizioni, alcuni pazienti, che avevano in precedenza dichiarato che non avrebbero trascorso una seconda chiusura in Comunità sono rientrati a casa. In questi casi abbiamo avuto il tempo di preparare le dimissioni durante gli incontri da remoto con i familiari e gli invianti.
Uno di essi ha ripreso il percorso comunitario la scorsa estate ed è tuttora in CRA.
A: Si parla molto delle conseguenze a medio e lungo termine del Covid su persone di categorie specifiche, in particolare bambini e ragazzi, anziani e persone che si sono trovate catapultate in una grave stato di difficoltà. Possiamo ipotizzare un’evoluzione per i nostri ospiti?
M: Negli ultimi due anni i progetti di tirocinio lavorativo sul territorio hanno subito una sospensione nei momenti di chiusura totale e sono stati successivamente riattivati. Anche le attività di volontariato che alcuni pazienti avevano avvito in Parrocchia o alla Caritas sono venute meno. Molte attività riabilitative sono state sospese quali la conoscenza del territorio, lo svolgimento di commissioni semplici quali la spesa o l’acquisto di sigarette la verifica di competenze quali la gestione del denaro o l’utilizzo dei mezzi pubblici. Per tale motivo alcuni invianti hanno inoltrato alle rispettive ATS domanda di prosecuzione dell’inserimento, oltre il periodo massimo di 24 mesi fruibile in Comunità di tipologia CRA, a fronte della situazione eccezionale vissuta.